Dario Fo

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Il Teatro Fa bene raccontato da Jacopo Fo – Parte Quarta

La chiacchierata di Jacopo con gli studenti sul significato del Teatro continua…

Domanda: Qualche anno fa frequentavo un’Accademia di teatro che poi ho lasciato perché non pensavo mi desse tutti i contenuti di cui avevo bisogno. Un giorno un professore molto giovane ci spiegò cos’era il gramelot  e poi passò tra gli studenti chiedendo loro di fare un esercizio. Per esempio, chiedeva di far vedere al pubblico una sedia con un gesto e una parola inventata. E così via, uno studente face una sedia, un altro un orologio, ecc. Arrivato da me mi chiede di fargli un sushi. Ora, io non avevo mai mangiato sushi e non sapevo nemmeno com’era fatto.
La mia domanda è: lei come lo farebbe il sushi? (risate e applausi)
Jacopo: Innanzitutto: se riprendessi questo racconto con una cinepresa e la mettessi su you tube, secondo me qualcuno ti guarda perché è molto divertente.
Ciò detto, la domanda è mal posta. Il gramelot è un finto linguaggio che veniva usato nel Medioevo dagli attori che non volevano essere decapitati per quello che dicevano quindi sostituivano le parole vere con una serie di suoni più o meno onomatopeici quando dovevano dire, per esempio, che il re era un pezzo di merda.
Se l’avessero detto in modo chiaro sarebbero finiti male, se usano suoni e gesti la passavano liscia: i censori non avrebbero potuto accusarli di niente, erano solo stati suoni inarticolati.
Quindi, il tuo insegnante non aveva capito cosa fosse il gramelot. Il gramelot è un gioco che mio padre e altri attori hanno sviluppato…
Che poi… mio padre non sapeva l’inglese e non era mai riuscito a impararlo e amava tantissimo il jazz e cantava con i suoi amici i brani jazz americani e si inventava le parole.
In seguito compose una canzone che diventò famosa e si intitolava: Il Pianto dei Piantatori di Piante. E la presentò alla radio spacciandola per una canzone americana e che i piantatori di piante piangevano in quel modo. Una stronzata epocale che fece ridere un sacco di gente.
In seguito utilizzò lo stesso linguaggio in Mistero Buffo e in gramelot fece i brani che, secondo il suo punto di vista, erano quelli che al tempo erano i più pericolosi.
Dietro il gramelot c’è anche un grande trucco teatrale: si fanno una serie di versi e di suoni da scimmione che sono vietati nella nostra consuetudine e la gente ride anche perché è liberatorio.
Quello che tu hai raccontato è interessante perché è la dimostrazione empirica che il tentativo di codificare quello che non è codificabile porta a dei discorsi che non hanno senso.

Domanda: Una delle critiche portate al teatro di Dario Fo e Franca Rame è che non sia arte o espressione poetica ma sia in realtà espressione politica di chi fa militanza, risultato di un “urgenza” comunicativa dei protagonisti… Come se si potesse portare a una separatezza tra ciò che è veramente teatro, poesia, letteratura, che risponde a determinati canoni nei testi e nei luoghi deputati alla loro rappresentazione, e tutto il resto, ciò che invece rimane escluso dall’orizzonte del “dicibile”
Jacopo: Questo è un problema centrale. Le persone asservite al potere si arrampicano sui vetri per poter affermare che certe espressioni non sono “arte”.
Guardiamo a Dante: La Divina Commedia, con il suo escamotage di Inferno, Purgatorio e Paradiso, è una satira politica, e Dante era una persona impegnata politicamente. Noi oggi leggiamo I Viaggi di Gulliver come fosse un libro per bambini, si tratta invece di un libro di battaglia politica. L’arte di serie A può assolutamente comprendere l’impegno politico … ricordiamo, tra i tanti, Tolstòj, Picasso… Sì, poi c’è anche Salvador Dalì, che si vende a Franco per avere in regalo il castello! Ma i venduti e i traditori sono sempre esistiti, e anche Dalì inizialmente fu un artista di rottura.
Ritengo che alla fine sia più una questione di lana caprina. Se andiamo a vedere chi resta nella memoria nei secoli, troviamo soprattutto persone che hanno rotto con i canoni estetici del loro tempo perché erano incazzati per motivi politici.
Di Leonardo Da Vinci non ci raccontano che l’unico dipinto andato distrutto perché prese fuoco – la Battaglia di Anghiari – era in realtà una satira. Secondo Macchiavelli in questa battaglia si scontrarono due eserciti, uno di Pisa e uno di Firenze, di 8mila uomini ciascuno, ma erano tutti mercenari svizzeri, da una parte svizzeri tedeschi e dall’altra svizzeri francesi. E, racconta appunto Macchiavelli, costoro combattono dall’alba al tramonto, con i due gruppi di generali che osservano dalla cima delle colline, e… c’è un solo morto! Un soldato che cade da cavallo… Leonardo dipinge questa storia in un momento politico particolare: nei bozzetti più antichi si vede un gruppo di vecchi sdentati che gioca a bandiera e non ci sono armi. Nelle versioni successive vengono aggiunte delle spade, i feriti, ecc. Abbiamo anche la testimonianza di Michelangelo, che sempre nel periodo di Firenze città libera dipinse la Battaglia delle Mutande, dove dipinge un gruppo di giovani nerboruti dell’esercito fiorentino che, visto il gran caldo, se ne stanno nell’acqua mezzi nudi. Sono due satire sulla guerra!
La stessa Cappella Sistina di Michelangelo venne considerata da alcuni, al tempo della sua esecuzione, un attacco frontale al potere.
In definitiva i grandi artisti della nostra storia avevano interessi culturali, sociali ed estetici: che oggi un critico teatrale ignorante ci venga a dire che quella certa espressione non è teatro perché vi è dentro della politica … beh, lo considero un analfabeta, non vale neppure la pena rispondere.

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